Falanghina, il vino del Sannio
Il nome Falanghina, secondo alcuni, deriva probabilmente dal greco falangos, termine adottato e tradotto poi dai Latini in phalange o palo di sostegno cui le viti erano legate secondo un sistema tuttora diffuso. Altri suppongono, dal termine greco-latino “falange”, il significato di “Falangetta” del dito, al quale l’acino si vorrebbe far somigliare. Altri ancora affermano che la denominazione Falanghina discenderebbe da alcune modificazioni del termine “Falerina”.
Quel che è certo è che le origini del vitigno autoctono risalirebbero a ceppi greco-balcanici, e che è stato introdotto nel Sannio, per lo più in Campania, dal popolo pelagico degli Aminei. Il Sannio è un territorio aspro e montuoso, ideale per la coltivazione di diverse tipologie di vitigni, tra le quali spicca – grazie alle sue caratteristiche organolettiche – la Falanghina.
Nonostante l’etimologia del vitigno e le sue origini un po’ misteriose, la Falanghina è una varietà molto antica che con certezza veniva già coltivata al tempo dei romani; non a caso alcuni studiosi hanno affermato che la Falanghina discenderebbe dall’antico Falernum Gauranum o Falerno bianco del Gàuro, noto come “vino degli imperatori”, elogiato anche da Plinio il Vecchio, Orazio, Virgilio, Cicerone.
Tra le prime descrizioni del tanto diffuso seppur poco conosciuto vitigno, troviamo quella presente nell’opera di Columella Onorati del 1804, anche se la più dettagliata sulla qualità e varietà viti-vinicola è riportata nell’opera del 1825 di Giuseppe Acerbi; questa rappresentò la base per il lavoro di Federico Corrado Denhart del 1829. I lavori dei sopra citati autori permisero alla Falanghina di entrare a far parte dell’Orto Botanico Reale di Napoli.
Nel 1989, al fine di ottenere la denominazione di origine controllata, i produttori abbandonarono il vecchio sistema di coltivazione puteolano, preferendo sistemi di potatura classici, rigidi e più efficaci (lasciando non oltre le sette-otto gemme per pianta) nonché l’adozione di nuovi impianti (come per esempio il Guyot basso), che col tempo hanno consentito di produrre uve e vini qualitativamente superiori.
Intorno al 1990, il pregiato prodotto enologico, divenne il capo espiatorio di una battaglia tra produttori vinicoli campani e di altre regioni, questi ultimi ne rivendicavano la paternità. Ma a seguito del convegno sul tema “Storia e prospettive di un vitigno campano: la Falanghina”, emerse inequivocabilmente che la falanghina è un vitigno autoctono che esiste in Campania. Con il passare del tempo, il vitigno è stato lasciato nel dimenticatoio, tanto da rischiare di scomparire. Solo negli ultimi due decenni è stato scoperto nuovamente grazie ad un gruppo di viticoltori del Beneventano e dei Campi Flegrei, diventando sinonimo di qualità e vanto per la Campania. Ad oggi viene coltivata a Nord di Napoli, nei Campi Flegrei e nel Sannio.
Il vitigno è caratterizzato dalla capacità di adattarsi alle diverse morfologie territoriali regionali, garantendo sempre risultati eccellenti in termini qualitativi tanto da divenire ad oggi la varietà di bianco più diffusa sul mercato enologico campano. La Falanghina presenta diverse proprietà organolettiche, tra le quali possiamo annoverare: colore paglierino più o meno intenso con riflessi verdognoli, dall’odore più o meno fruttato prodotto anche nelle versioni del Passito e Spumante.